Nel paese in cui era nata Rebecca i morti si festeggiavano ogni anno e non piangendo o andando in cimitero ma con pan’e saba, tiliccas e frutta secca che in casa la madre nascondeva in una piccola dispensa al piano superiore. Vi si accedeva grazie ad una scala piccola e ripida: Rebecca quegli scalini li conosceva uno per uno. Erano 7, e servivano sette secondi per aprire la piccola porticina della soffitta senza che Emma, sua madre, se ne accorgesse. Ogni scalino era magico e magica era anche la soffitta, sempre buia tranne quando Emma accendeva il forno che sputava come Luxia Arrabiosa, ventate di aria calda.
Era in soffitta quel pomeriggio, e per salire senza essere scoperta aveva dovuto recitare la filastrocca che le aveva insegnato Zia Nanna. Attenta aveva risalito i sette scalini che più si saliva più si facevano alti e stretti, aveva contato fino a sette per aprire la porticina laccata di bianco avorio e ora sedeva in quella seggiolina in miniatura a guardare il pan’e saba che lievitava.
Aveva appena pizzicato l’impasto, una, forse due o tre volte, tanto per assaggiarlo, e lo aveva subito dopo massaggiato per nascondere il furto. Pensava che un pan’e saba buono come quello che faceva la mamma nessuna riusciva a sfornarlo per quanto Clelia fosse convinta del contrario. Ma la zia era sicura d’essere brava in tutto più degli altri e nessuno più in paese le dava retta. Quell’anno avevano addirittura pensato di organizzare una gara e il pan’e saba più buono avrebbe vinto non ricordava quale premio. Sicchè Rebecca aveva pensato bene di vegliare in prima persona la lievitazione del dolce, ma i passettini che risalivano la scala le fecero capire che non era la sola ad aver avuto quell’idea.
Quando Emma sbucò dentro quel piccolo mondo incantato, il profumo d’uva passa la avvolse come quando era piccola. Ne rubò un chicco, gettò uno sguardo al pane di saba che lievitava felicemente e si diresse verso il cesto che conteneva ceci e fave. Ne caricò un cestello che aveva con sé e iniziò a rovistare a destra e a manca alla ricerca di un piccolo porta candela che tirava fuori sempre durante la fine di ottobre. Era stato di Rubina e prima ancora della madre di Rubina, in terracotta, con la forma di una piccola tazzina, bruciato sui bordi e con strane pitture geometriche sui lati. A Rebecca non era consentito toccarlo e forse proprio per quello quel porta candela la incuriosita tanto. Immaginava che quei simboli fossero magici e raccontassero una storia che lei ancora non sapeva leggere: non aveva mai avuto il coraggio di toccarlo se non si contava quella volta che aveva allungato la manina grassottella verso il coccio e lo aveva sfiorato con la punta dell’indice.
Trovato tutto il necessario Emma chiuse la porticina e scomparve nel buio. Rebecca, nascosta dietro dell’asfodelo messo a seccare tirò un sospiro di sollievo. Aspettò qualche momento e quando i tempi le parvero maturi salutò il pane di saba e si chiuse alle spalle la porticina della soffitta.
In cucina Emma aveva acceso un piccolo lume anche se ancora di luce ce n’era un bel po’. A contenerlo era il famoso coccio che la bambina sbirciava di nascosto, con una certa riverenza. Si sedette accanto alla madre e cominciò ad osservarla mentre sciacquava ceci e fave per metterli a mollo. Emma sapeva che di li a breve sarebbe arrivata qualche domanda, ed in effetti il quesito non tardò.
“Mamma…” “Si?” “Ma perché accendi sempre una candela in questo periodo anche quando c’è il sole?”
“Non la accendo per noi…”
“E per chi allora?”
Emma sorrise e continuò a sciacquare i legumi. “Per la nonna e tutti i parenti che non ci sono più. Questo lumicino li aiuta a ritrovare la strada di casa.”
“Mamma” e lo disse con una certa dolcezza, quasi che non volesse ferire i sentimenti di Emma “La nonna è morta… non può tornare a casa”.
“Oh si che può, ritorna a farci visita ogni anno durante questi giorni e grazie a questo lumicino lei, la zia e tutti gli altri riescono a ritrovare la strada facilmente”.
Rebecca non sembrava poi troppo convinta. “La maestra l’altro giorno ha detto che sono tutte sciocchezze”.
“Evidentemente bambina mia, la tua maestra non ha parenti che devono trovare la strada per tornare a farle visita. E’ un po’ triste, non trovi?”
Rebecca fece di sì con il capo. Se le cose stavano così era piuttosto triste per davvero.
“Ma tu mamma come fai ad essere tanto sicura che la nonna tornerà a casa stanotte? L’hai mai vista?”
Emma fece di no con la testa, riempì una pentola profonda con dell’acqua e la mise sul fuoco insieme con le fave e dell’aglio.
“Una volta credo d’averla intravista, ma questa non è la cosa importante. Io sento la sua presenza e delle volte, perché le cose accadano, basta volerlo, volerlo molto intensamente.”
Buttò nella pentola del sale e chiuse il coperchio. Le fave avrebbero cotto per tutta la giornata, non era un piatto che si preparava in poco tempo ma quando si festeggiavano i morti le cose dovevano essere fatte per bene.
Rebecca sazia di informazioni si alzò e corse fuori casa. L’avrebbe voluta proprio vedere lei Nonna Rubina: tanto per cominciare c’era il nome che non aveva mai sentito prima, poi c’era quella storia che raccontava di una bellissima donna venuta dal mare che aveva conosciuto Lino ed era rimasta sull’isola e se non bastava c’erano gli occhi, i suoi e quelli della nonna, che tutti dicevano fossero uguali. D’altronde Rebecca somigliava molto a Rubina ed Emma, che era la copia di suo padre, ne andava davvero fiera. Raccoglieva qualche lumaca mentre escogitava un modo per vederla per davvero sua nonna: in fondo, se quella notte sarebbero tornati e lei fosse stata sveglia, forse avrebbe potuto scambiarci qualche parola, forse avrebbe potuto domandarle se davvero veniva dal mare e il perché di quel nome che era strano ma anche squisitamente bello.
Al tocco della bambina le lumache ritraevano le proprie antenne e si richiudevano nel proprio guscio: dopo una bella pioggia se ne potevano trovare di davvero pigre andare e tornare per la campagna. Quando le parve d’aver escogitato un piano infallibile, con il suo bottino in mano la bambina rincasò.
C’era all’interno della piccola casa profumo di aglio cotto e quel delizioso sapore di legumi che ribollivano dentro la pentola. Emma era intenta a piantar qualcosa in piccole ciotoline di terra morbidissima e quando vide la bambina le fece cenno di avvicinarsi. A mani nude scavava quel terriccio ammorbidito e vi piantava dentro piccoli ceci lasciti per qualche ora a mollo nell’acqua tiepida.
“Tieni Rebecca” passandole una ciotolina “mettila sotto il letto”.
“Perché?” chiese lei accettando il regalo, curiosa, curiosissima come suo solito. “Lo capirai al momento giusto”. “E perché non puoi spiegarmelo tu adesso?”
Ma Emma già era presa da altre faccende. C’era il pranzo da mettere in tavola, e quel pan ‘e saba da cuocere; la giornata sarebbe stata davvero lunga.
E lunga lo fu per davvero, o almeno così pensava Rebecca alle undici di notte passate quando nascosta in un angolino della cucina, con un piccolo pezzetto di pane dal profumo di saba in mano, aspettava che la nonna venisse a farle visita.
La tavola, così si usava, era rimasta apparecchiata e al centro c’era un piatto di fave lesse e di ceci cotti. D’altronde se fossero tornati per davvero, i nonni chissà quanta fame avrebbero avuto. E mentre la civetta oltre la porta cantava e scandiva il trascorrere dei minuti Rebecca pensò che chiudere gli occhi un solo momento non avrebbe fatto male a nessuno.
Quando li riaprì il sole stava per sorgere e il cielo era tutto pitturato di un rosa da fiaba: le nuvole arancioni andavano lente e sulla tavola il piatto di fave lesse non c’era più. Accidenti! Per vedere la nonna avrebbe dovuto aspettare un altro anno: eppure le pareva di averla incontrata per davvero, in sogno, vestita di rosso e coperta da uno scialle nero tutto ricamato in un calderone di colori. Le era sembrata davvero dolce con quegli occhi che parevano più grigi che celesti, esattamente come i suoi. Le aveva carezzato la testa bionda consigliandole di guardare, da li a qualche giorno sotto il letto: ci sarebbe stata una sorpresa.
Filò in stanza, prima che la madre la vedesse e si infilò sotto le coperte non prima di aver sbirciato sotto il letto. Niente. Solo la piccola ciotola di terra scura.
Qualche ora dopo Emma preparava i dolci per la gara e Rebecca sbadigliava in un angolo. Quel giorno vinse Damiana, una vicina di casa che faceva un pan’è saba delizioso, certo, secondo Rebecca non buono come quello della madre, ma pur sempre accettabile.
Di guardare sotto il letto Rebecca si ricordò una settimana più tardi. La ciotola nera c’era sempre ma la terra scura era stata spaccata da un filo di erba pallida che cresceva alto e forte. Rimase qualche decina di minuti a guardarlo, lo portò al sole e pensò che in fondo la madre aveva proprio ragione: niente muore davvero in questo mondo, al massimo si riposa per un pò di tempo, per poi riprendere a germogliare. La maestra poteva pensare quel che voleva, lei quella notte appena trascorsa la nonna l’aveva sentita vicina e aveva il sospetto che proprio come il piccolo cece Rubina stesse rigermogliando. Da quell’anno in poi la bambina aiutò la madre ad accendere il lumicino durante la fine di ottobre: era importante perché aiutava i nonni a ritrovare la strada di casa. Non si dimenticava nemmeno di piantare un cece o una fava e si stupiva ogni volta perché dalla terra qualcosa che tutti reputavano morto, se piantato con amore, rinasceva.
Photo Credit: by Yelena Bryksenkova & Jen Corace
Ottobre 31, 2014
Grazie per questa favola bellissima! L’ho letta alle mie bambine e questa notte pianteremo un semino
Ottobre 31, 2014
Grazie a te Cecilia. Il tuo messaggio non solo mi rende orgogliosa ma mi rallegra parecchio. Ho scritto questo e altri racconti per la mia bambina. Non vedo l’ora di poterglieli leggere. A presto e buon attesa che il semino germogli. Tienimi aggiornata!
Ottobre 27, 2015
Credere in qualcosa, in qualcuno, nonostante tutto è un modo per non perdersi.
Grazie Claudia per questa storia bellissima e densa di significato.
Ottobre 28, 2015
I racconti sono uno dei modi migliori per trasferire cultura, regalare ricordi, ancorare i nostri figli con forti radici alla nostra mamma Sardegna. Grazie Barbaricina, grazie mille!