Le Panas: tra leggenda, controllo sociale e sorellanza

Il mito sardo delle panas racconta di donne che, morte di parto, sono obbligate a vivere in terra un purgatorio lungo sette anni a causa di un dettaglio che mi  ha lasciata sbalordita fin da subito: sono morte in un periodo della loro vita ritenuto dalla chiesa e dalla comunità come impuro.  

Fra tutti i miti sardi questo mi sta particolarmente a cuore perché le panas sono donne trattate ingiustamente da una società abbondantemente patriarcale, ma che spesso ha giocato a definirsi matriarcale.  

Forse sarebbe più corretto dire che il mito delle panas mi fa ribollire il sangue nelle vene, ma con il tempo ho imparato a controllare il sangue che ribolle e ad utilizzarlo per trovare spunti creativi e deduzioni interessanti.  

All’interno di questo articolo facciamo proprio questo: scopriamo chi siano le panas, ne ipotizziamo un’origine e una ragione storica, analizziamo tutti gli elementi che sono portanti di questo mito per capirlo più a fondo e comprendiamo insieme se parlare di panas oggi abbia ancora senso. 

Pronte? Pronti? Si parte. 

Le Panas: tra leggenda, controllo sociale e sorellanza

In Sardegna le donne, come succedeva altrove, morivano di parto. Fare figli era mestiere rischioso, ma i figli si facevano lo stesso, perché la riproduzione era mansione principale della donna.  

Quelle che morivano, ed erano tante, si riteneva lo facessero in un momento di impurità:

  • a renderle impure forse la morte repentina, priva della ricezione di sacramenti fondamentali
  • l’atto del parto, piuttosto traumatico per la donna e un tempo ritenuto in grado di attirare spiriti molesti
  • l’atto sessuale. 

Questa impurità, nel caso di un parto felice, veniva sanata 40 giorni dopo la nascita in quella che tradizionalmente veniva detta incresiadura: le donne si recavano in chiesa in completo silenzio e lasciavano che il prete le benedicesse e benedicesse pure il nuovo nato.  

Le donne morte di parto, non avendo svolto questo rituale e dunque morte impure, sarebbero diventate panas. A mo’ di purificazione avrebbero dovuto lavare per 7 anni i panni insanguinati dal parto propri e dei propri figli. Location ideale lavatoi o corsi d’acqua a notte fonda. 

Incontrare una pana per una vivente poteva diventare particolarmente rischioso: chi, non riconoscendola come tale, le avesse rivolto la parola disturbando il suo silenzio, avrebbe rotto la magia ed interrotto la penitenza. La pana disturbata avrebbe dovuto riniziare il suo purgatorio che si sarebbe esteso ad altri 7 anni. Va da sé che a quel punto gli spiriti penitenti delle panas potevano diventare particolarmente lesivi.  

L’atto a cui facevano ricorso era soprattutto uno: lanciare i panni contro la disturbatrice. Quei panni, infusi di maledizione, avrebbero bruciato il volto della donna. Quella bruciatura, oltre che inestetica, si sarebbe potuta mutare in un tumore (pana significa anche tumore in lingua sarda) decretando dunque la fine della disturbatrice.  

Per evitare alla donna morta di parto questo iter, esistevano delle attenzioni delle quali vi dirò sotto.  

Il mito racconta inoltre che le panas, spesso dette anche cogas de is parteras (streghe delle partorienti), venissero attirate dai parti “felici” di altre donne. In questo caso l’anima della pana, se non allontanata con il rito noto come incresiadura a domu, si sarebbe potuta attaccare alla dimora, alla puerpera o al bambino/a decretandone il deperimento.  

Se vuoi approfondire il mito ti consiglio di leggere il mio Creature Fantastiche in Sardegna

Le Panas: tra leggenda, controllo sociale e sorellanza

Questo rituale i sardi lo hanno probabilmente ereditato dal contesto cristiano o ebraico.  

Miriam di Nazaret, che in contesto ebraico nasce e opera, non poteva fare eccezione. Lei pure dovette presentare, 40 giorni dopo il parto, Gesù al tempio.

Questo rito ebreo prima e cristiano poi è piuttosto interessante perché dà giustificazione al mito delle panas, posizionandolo all’interno di una cultura squisitamente patriarcale.  

La purificazione della donna che partorisce è presente in molte culture: quando la donna partorisce è in una zona liminale tra vita e morte. Chi vive viene riportata nel mondo dei vivi per mezzo di un rituale denso di significato (fumigazioni, riposo, bagni, recita di preghiere) che il più delle volte avveniva per mezzo di donne.  Nell’ebraismo le cose non mutano, ma i presupposti cambiano: la donna è impura e come tale solo chiesa e prete possono purificarla.   

Nell’ebraismo, la presentazione del primogenito al Tempio deriva dalla legge mosaica e ha due principali scopi: 

  • Redenzione del primogenito, appunto Pidyon HaBen: nell’episodio biblico dell’Esodo dopo la piaga della morte dei primogeniti d’Egitto, Dio dichiarò che tutti i primogeniti ebrei sarebbero stati consacrati a Lui (Esodo 13:2). Per riscattarli, i genitori dovevano portarli al Tempio e pagare un prezzo simbolico ai sacerdoti (Numeri 18:15-16). Questo rito si chiama Pidyon HaBen e viene ancora praticato in alcune comunità ebraiche al 31° giorno di vita del bambino. 
  • Purificazione della madre (Legge di Mosè): dopo il parto, la madre era considerata ritualmente impura per un periodo di 40 giorni (se aveva partorito un maschio) o 80 giorni (se aveva partorito una femmina) (oddea queste femmine!) secondo la Legge di Mosè (Levitico 12:1-8). 

Alla fine di questo periodo, la madre andava al Tempio per un rito di purificazione, durante il quale offriva un sacrificio. 

Il Cristianesimo adotta l’uso: nel Vangelo di Luca 2:22-24, si racconta che Maria e Giuseppe portarono Gesù al Tempio a 40 giorni dalla nascita, seguendo la legge mosaica e l’evento venne detto Festa della Presentazione del Signore (2 febbraio), nota anche come Candelora

Le Panas: tra leggenda, controllo sociale e sorellanza

Il mito è ricco di simboli da tenere in considerazione che ora analizziamo rapidamente: 

  • Mito e rito: è rarissimo trovare miti giustificati da riti ancora esistenti o di cui si abbia memoria. Nel caso delle panas questo avviene ed è entusiasmante. Della Candelora in Sardegna e dei suoi significati ti ho raccontato qui. 
  • Tecniche di protezione (che sembrano più che altro di offerta). Per pacificare le panas esistevano alcune strategie. La più nota era quella di lasciar cadere, fuori dall’uscio della porta, una manciata di chicchi di grano o orzo e sale grosso, ma anche erbe aromatiche. Unico vincolo: che i cereali e fiori fossero in numero superiore a sette. Le panas contando i doni e non sapendo andare oltre il sette si sarebbero perse l’attimo fuggente e non avrebbero nuociuto al nascituro e alla madre. Come Dolores Turchi consiglia: questa vi sembra più una forma di protezione o di offerta ad antiche divinità? Questo dettaglio pone inoltre in connessione panas e cogas (streghe) dalle quali ci si protegge nei medesimi modi. 
  • Sepoltura con pettinino. La tradizione sarda la presenza di questo pettine la giustifica così: la donna pettinerà per quei sette anni il suo sposo illudendosi di averlo accanto. In questo modo non si scomoderà ad andare a cercarlo nel mondo dei viventi. Sarà pana, ma non pana molesta. Le ragioni del pettine, che torna anche quando si parla di accabadora sono probabilmente di natura diversa e ben più antica (te le racconterò altrove).
  • Sorellanza: questo è l’aspetto che mi piace di più e salta fuori chiaramente dal mito. Se il marito non metteva per dimenticanza o negligenza nella bara pettine, ago e filo (di cui ti dirò presto) che da soli avrebbero trattenuto la donna morta dal diventare pana pericolosa, spesso ci pensano le donne. La leggenda vuole inoltre che le donne amiche e familiari della pana, per evitare che lo spirito fosse costretto a lavare i panni per sette anni, lavavano per conto suo i panni, addossandosi la pena e alleggerendo il suo purgatorio (commuovente). 
  • Incresiadura a domu: in Sardegna esiste anche un rituale domestico di purificazione della donna che avveniva poco tempo dopo il parto (ore o giorni). Era gestito da sa maista de partu (la levatrice) che con fumi, vapori e gesti purificava puerpera e casa. Si sentiva in obbligo di svolgere tale rituale soprattutto se il prete si fosse rifiutato di farlo. Quest’uso ci racconta chiaramente che la purificazione della donna e degli ambienti del parto, era nota e probabilmente da tempi piuttosto antichi: questo rituale poi forse è stato sottoposto a cristianizzazione diventando quello che abbiamo raccontato. 

In merito all’etimologia del termine Panas riporto un brano del carissimo professor Mario Alinei che fra i primi stimò il mio lavoro.  

Sas panas, in Sardegna, sono, nel sud dell’isola, le ‘puerpere’ e, nel nord, le anime delle donne morte di parto che ogni notte si recano al fiume per lavare i panni dei loro bambini con un osso di morto (cfr. DES). 

Secondo Claudia Zedda «creature fantastiche connesse strettamente con il mondo acquatico. Lavandaie notturne, puerpere, donne morte di parto» [Zedda 2008: 134]. La credenza dev’essere antichissima, dato che nelle glosse (cfr. CGL: IV, 138, 21) troviamo l’equivalenza panas = incobos (cfr. DES). La credenza voleva che per trovare pace sas panas dovessero fare il loro lavoro senza interruzione per sette anni; se venivano disturbate dovevano ricominciare per altri sette anni, sicché si  vendicavano di chi le aveva importunate. Per questo, le donne non andavano mai di notte a lavare nel fiume, e quando il vento somigliava a sussurri umani, vi sentivano le voci delle Panas (cfr. <www.galtelli.net>). Il DES deriva, senza alcuna spiegazione iconimica, il termine dal pliniano pana ‘tumore’ (?), mentre io lo avvicinerei al nome delle mitiche Aquane ladine, di cui mi sono occupato a varie riprese, e il cui rapporto con l’acqua è trasparente. Per la fonetica, cfr. arpau ‘scorpione’ < arquatus «foneticamente ineccepibile» secondo DES: 458), e spid¢d¢a ‘squilla marittima’ < lat. squilla).  

Quanto al ruolo delle ‘lavandaie’ nella mitologia popolare, esso è ancora tutto da studiare. Oltre alle pane e alle aquane ne ricorderei almeno altre due: le fate lavandaie che abitano nelle barme delle Valli Occitane, e che nelle leggende locali sono accomunate dall’elemento acqua dei laghetti e dei corsi d’acqua, e dai pannolini infantili da lavare. Una balma si chiama R’arma da Fàa d’Ercina (la balma della fata Alcina). E la bean nighe scozzese, la ‘lavandaia del guado’, che infesta i corsi d’acqua e lava il sangue degli abiti dei cadaveri, che al plurale (mnathan nighe) diventa il nome degli spiriti delle donne morte di parto, obbligate a continuare nel loro lavoro per tutto il tempo per cui sarebbero vissute normalmente. Come si vede, molto simili a sas panas. 

Una ricerca approfondita sulle fate lavandaie, sui loro rapporti con la morte di parto, e sui loro nomi, sarebbe auspicabile, e certamente proficua. 

Le Panas: tra leggenda, controllo sociale e sorellanza

Il mito come strumento di controllo sociale sulle donne 

Nel mito delle panas si riflette una società patriarcale in cui il corpo femminile viene gestito e regolato da altri. In questo ordine sociale la deviazione dalle aspettative, per quanto involontaria, è punita severamente. Il controllo sulla riproduzione, sulla sessualità e sul ruolo della donna come madre si traduce in credenze e pratiche che stabiliscono in maniera del tutto arbitraria ciò che è puro e ciò che non lo è.  

L’idea che la morte in parto sia impura e che la donna debba espiare una colpa, sottintende una spaventosa colpevolizzazione della maternità: la donna è portatrice di vita, ma la sua stessa natura può renderla dannata, quando non fa quello per cui, secondo le società patriarcali, è nata: generare vita all’interno del suo clan familiare. 

Questo concetto si collega a una visione maschiocentrica in cui il corpo femminile è pericoloso e impuro, e la sua funzione riproduttiva deve essere regolata attraverso rituali di purificazione imposti e gestiti da un’autorità religiosa o comunitaria. 

La necessità della benedizione della puerpera mostra come la religione abbia imposto un controllo anche sulla sfera intima e biologica della donna. 

Sarebbe in questo caso utile chiedersi: chi decide cosa è puro? Ma soprattutto perché la donna che muore dando alla luce la vita deve scontare una condanna?  

Il potere del silenzio: punizione o ribellione? 

Il silenzio è un elemento chiave del mito che mi ha fatto a lungo riflettere. Le panas devono scontare la loro pena in silenzio e non possono parlare con i vivi. 

Le chiavi di lettura possono essere almeno due: il silenzio può essere rappresentazione di quello imposto alle donne, costrette a subire, a non lamentarsi per non disturbare l’ordine prestabilito.  

Tuttavia, possiamo anche ribaltare la prospettiva: le panas parlano attraverso il loro silenzio. La loro presenza inquietante è un monito: non sono davvero scomparse, continuano a esistere e a ricordare il prezzo che hanno pagato. Sono una presenza assordante, che non può essere cancellata. 

La sorellanza: una forma di resistenza femminile 

L’aspetto più commuovente del mito mostra che le donne potevano aiutare le panas lavando i loro panni al posto loro. 

Questo è un gesto di solidarietà tra donne, che si fanno carico del dolore di una loro simile e la aiutano a trovare pace. E’ un messaggio potente: in una società che punisce le donne, l’unico modo per salvarsi è aiutarsi a vicenda. Questa sorellanza contrasta l’idea di una femminilità individualista e passiva: le donne si prendono cura delle altre donne, riscrivono le regole del mito e spezzano la condanna. 

È nella cura reciproca che si nasconde la vera forza del femminile: un potere invisibile, ma capace di trasformare il destino. 

Dal mito alla realtà: le panas esistono ancora? 

Le panas sono donne dimenticate, escluse dalla storia ufficiale, costrette a espiare una colpa inesistente. 

Oggi, ci sono ancora donne che subiscono qualcosa di simile: penso ai livelli consistenti di mortalità materna nei Paesi più poveri, e alle donne costrette a partorire in condizioni precarie, a quelle che muoiono perché non hanno accesso a cure adeguate, a quelle che dopo il parto vengono lasciate a sé stesse con un fardello davvero troppo pesante perché lo si possa gestire da sole. E spesso non ce la fanno. Tutte queste condizioni sono accumunate dal silenzio. Un silenzio assordante.  

In questo senso, vedo nelle panas un simbolo di tutte le donne che sono state e continuano a essere silenziate, che hanno sofferto per colpe non loro e che meritano di essere ricordate. 

Ogni volta che racconto la loro storia, mi sembra quasi di restituire loro un posto nel mondo. Le panas non devono più lavare in silenzio: è arrivato il tempo che la loro voce venga ascoltata. 

Il mito delle panas è un esempio straordinario di come le credenze popolari possano essere lette come strumenti di controllo sociale, ma anche come spazi di resistenza e solidarietà femminile.  

La pena lunga sette anni durante i quali altre donne possono vedere le panas è inquietante: le panas in questo senso sono un monito per le altre donne che possono concretamente vedere come la società punisce quelle che non riescono a portare a termine il compito loro imposto. Trovo invece straordinariamente potente la risposta delle mie donne, che si fanno carico del dolore altrui e, insieme, lo annullano. 

Inoltre, sebbene influenzato dalla cristianizzazione, conserva varianti locali ed elementi più antichi che ci portano a ipotizzare una matrice pre-patriarcale. La purificazione post-parto (l’incresiadura a domu), il ruolo del silenzio, il pettine, la tessitura del destino, il legame con l’acqua e le offerte alle anime delle donne morte lasciano intravedere tracce di un culto delle antenate e di pratiche rituali connesse alla protezione della madre e del neonato. 

Oggi, il mito delle panas può essere interpretato come una metafora della condizione femminile: donne private della loro voce, punite per aver trasgredito norme imposte e relegate in una dimensione liminale tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Eppure, allo stesso tempo, queste figure sono circondate da un senso di cura e sorellanza che sembra emergere dai margini della narrazione dominante. 

Studiare le panas significa riconoscere nella tradizione sarda un patrimonio di significati stratificati, che non solo ci raccontano il passato, ma possono essere utilizzati per decostruire e reinterpretare il presente.  

Ha ancora senso parlare di panas oggi? Sì, se vogliamo continuare a smascherare le ingiustizie e a dare voce alle donne che la storia ha cercato di zittire.  

Fonti 

Alinei M. | Sette nuove etimologie da approfondire  

Turchi D. | Lo sciamanesimo in Sardegna 

Zedda C. | Creature Fantastiche in Sardegna 

Zedda C. | Est Antigoriu 

Zedda C. | L’amuleto – ed. Condaghes 

Per approfondire

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