Da bambina volevo comprarla: io comprerei tutti i ruderi e le isole disabitate. Sento l’energia dei luoghi e mi convinco tutte le volte che alcuni mi chiedano di riprendere a vivere.
Ma Serpentara non si compra né si vende. Serpentara si guarda e si desidera.
Quando ero piccola papà lo faceva spesso: accendeva il motore del nostro piccolo gommone arancione e ci portava in gita a Serpentara: il più delle volte ci fermavamo fra i Varaglioni, che lui chiama Faraglioni. Si tratta di due grandi scogli che fanno la guardia all’isola maggiore.
Delle volte invece il vento ci consentiva di fermarci proprio a ridosso di Punta Porceddus, e li era un tripudio di bagni e di immersioni. Una volta ricordo che acconsentì a farci sbarcare. Diceva sempre di no, ma quel giorno disse che sì, si poteva fare: così sbarcammo e ci incamminammo verso quello che io bambina ritenevo un castello ma che in realtà era una torre spagnola datata XVI secolo, costruita per proteggere l’isola, quella grande, la Sardegna, dai Saraceni.
Ricordo che avevo un poco paura che i serpenti ci mordessero i piedi: credevo che Serpentara fosse isola di serpenti, ma niente, di serpenti non ci fu nemmeno traccia.
I serpenti delle Janas
Oggi dei serpenti so almeno due cose; che a Serpentara non ce ne sono: l’isola si chiama così per via della sua forma. Pare piuttosto che a nidificarci fossero i falchi, i Falchi di Eleonora. Ma questa è un’altra storia.
La seconda cosa che so sui serpenti è che sono per il sardo creature da sfamare, sacre, divine perché proteggono la salute degli ovili, la salute dei campi, ma soprattutto perché ogni serpe, meglio se nera, potrebbe essere una jana.
Le fate di Sardegna, raccolta la leggenda, si possono mutare in almeno due creature: pavoncelle/colombe e serpi. Entrambe sono creature velocissime, sagge, incredibilmente abbondanti. I pochi contus che raccontano questa storia ci dicono che le janas come ogni creatura divina, è in grado di mutare forma, ma lo fa solo quando la necessità la costringe a spostarsi con incredibile rapidità. Questo avviene quando devono portare un messaggio. Allora cambiano forma, allora diventano serpi nere, allora diventano pavoncelle, allora diventano ancor più chiaramente espressione della Dea, di Ikùssa. E il sardo le serpi nere e le pavoncelle le ha protette a lungo.
Per questo strano gioco di nessi e connessi oggi, quando guardo Serpentara penso all’isola delle Janas e desidero tornarci ancora più intensamente.
Allora lo faccio con il ricordo: quella mattina in cui papà ci concesse di sbarcare la salita non fu per niente semplice: la torre si trova a circa 50 metri sul livello del mare ma c’era caldo, un caldo che solo in Sardegna, in estate, poco prima di mezzogiorno puoi provare. L’isola parlava: era tutto un vociare di creature che fuggiva fra la bassissima vegetazione e poi c’erano uccelli nascosti che seguivano ogni nostro passo.
Ma salii. E risalii anche i pochi gradini, esterni, senza parapetto, che aggirano la torre di San Luigi e ne consentono l’accesso. Per una come me che soffre di vertigini fu un’impresa. Ma salii.
Chissà se l’interno lo ricordo davvero o è solo suggestione: era ampio, fresco, pieno di sabbia, irregolare nella pavimentazione e vibrava ad una vibrazione malinconica e prepotente.
Ricordo d’aver avuto paura. E uscii subito.
Eppure lì ho lasciato, non un pezzo di cuore, ma un frammento della mia infinita curiosità.
Cosicché succede che delle volte, durante le mie meditazioni serali, come una jana, cambi forma e voli lì, in quell’isola che è detta dei serpenti, ma che fu dei falchi e che oggi è protetta da 100 e 1 vincoli ambientali e paesaggistici perché lì dormono le fate, e nessuno dovrebbe mai disturbarle.
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