Carnevale a Casteddu: maschere e modi di dire mai dimenticati

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Cerchi maschere favolose e misteriose un po’ ovunque sull’isola e finisce che ti perdi quelle di casa tua.

A Cagliari tra l’ottocento e il novecento ne avevamo di piuttosto interessanti. Il fascino di queste maschere non sta nella burla o nella beffa che rappresentavano, ma nel fatto che ti raccontano qualcosa di più su quella che duecento anni fa era la tua città e ancora oggi fanno parte del tuo parlato.

Sa panettera

Facciamo ad esempio che un giorno ti trovi in un bar di Cagliari e sorseggiando il tuo caffè macchiato ti sembra di sentire una frase del tipo “Cussa? Esti una panettera” Quella? E’ una panettiera. Se non sei di Cagliari è probabile che possa pensare si parli di una donna che lavora in un forno, e invece no. A Cagliari Panettera sta a Crastula (chiacchierona) come Tzipulas (zeppole) stanno a Carenvale. Ora so perché.

De sa panettera ne parla Maltzan, il mio tanto amato Alziator e Della Maria e tutti sono d’accordo nel definirla una delle più tipiche maschere cagliaritane, la più dura a morire. Sembra che durante la metà dell’ottocento questo costume fosse in voga fra le signorine della Cagliari aristocratica, ma con sa panettera non si scherzava, e quelle vere, che lavoravano nei forni e consegnavano pane a domicilio, concluso il carnevale praticavano delle vere e proprie ritorsioni nei confronti delle signorine, già che si sentivano derise.

Ma la maschera piace troppo ai cagliaritani: non la usano più le donne, ma gli uomini decidono di farla diventare la più gettonata, specie dai giovani con scopi amorosi. I ragazzi che si vestivano da panettera non creavano una parodia, ma una rappresentazione piuttosto fedele della figura. Il volto naturalmente doveva essere nascosto dietro una maschera e il mascherato, così abbigliato, si introduceva nella casa dell’amata. A carnevale ogni scherzo vale e sembra che i genitori della ragazza fingessero di credere quella una vera panettera, lasciando gustare ai ragazzi qualche momento di felicità. La maschera piaceva tanto che sembra alcuni matrimoni siano davvero riusciti per opera del travestimento.

Quando poi la figura della panificatrice scompare dalla vita di tutti i giorni la maschera assume un carattere tipicamente satirico e a quel punto diventa una maschera di denuncia dei peccati del prossimo e viene immancabilmente chiamata “crastula”. I peccati d’altronde, in un epoca di forte repressione sessuale, avevano tutti carattere amoroso (tradimenti, amori insoliti, amori presi e poi lasciati). Ancora oggi è in uso dire “crastula cummenti una panettera”: ora so perché.

A questo punto te lo stai chiedendo: ma come ci si vestiva da panettera? La maschera riprendeva i tratti dell’abbigliamento delle cagliaritane popolane: c’era una maschera in cera che tratteggiava il viso di una donna matura e spesso si accompagna al pescatore (piscadoris) di cui, nella realtà erano mogli o figlie.

Poi per caso mi sono trovata fra le mani il saggio antropologico di Luisa Orrù (Maschere e doni, musiche e balli): mi si è aperto un mondo.

Su concali e porcu

Hai mai sentito parlare de su concali ‘e porcu? Io si, ma concali de porcu oggi non è più una maschera, ma una descrizione poco carina del volto di persona. Secondo quanto ci racconta Alziator a Cagliari c’era la maschera del gatto realizzata con un lenzuolo e sagomata con un legaccio al collo. Sulla testa invece c’erano due pieghe che ricordavano le orecchie. Il lenzuolo era bianco, e la maschera con o senza baffi a seconda della pazienza di chi l’aveva realizzata. Ma c’è anche il nostro concali ‘e porcu: consisteva in un grosso mascherone che raffigurava una testa suina e che poggiava sulle spalle e secondo Alziator riporta direttamente a quei travestimenti animaleschi che già erano in uso nel V secolo, stigmatizzati dalla chiesa e dai quali dovrebbero discendere anche le maschere bovine di Barbagia.

Il pescatore

Anche il pescatore doveva essere una maschera piuttosto divertente. Poteva essere su pappa sa figu o il partner de sa panettera. Su pappa sa figu soprattutto merita qualche parola: mostrava ai monelli (specialmente is piccioccus de krobi dai quali era attorniato) i fichi, li invitava a prenderli ma poi quelli buoni se li mangiava lui e ai bambini offriva quelli finti. Era variamente abbigliato ma con sé portava sempre la canna con lenza ed amo nel quale appendeva i fichi urlando “pappa sa figu, pappa sa figu”, mangia i fichi, mangiai  fichi. Sembra che di tanto in tanto il pescatore si facesse fuggire qualche fico, tanto per non scontentare troppo i bambini e incorrere in qualche bastonata.

A Cagliari gli uomini si vestivano anche da vedova, sa viura, che piangeva un defunto e cercava le attenzioni delle giovani ragazze. Secondo alcuni si tratterebbe di una maschera allegorica che impersonava la Quaresima e la Morte di Carnevale. C’era anche la balia, detta sa dida che impersonata da giovanissimi portava grossi seni cadenti realizzati con stracci e crusca, c’era poi il matto, il dottore, il lattaio, il paesano e il ciabattino (acconcia buttinusu). Sembra che la maschera sia comparsa negli ultimi decenni dell’ottocento, indossava un abbigliamento malconcio, il viso annerito con carbonella o coperto con una maschera di cartone e portava con se banchetto e spazzola, insieme con un sacco dentro il quale c’erano le varie forme di scarpe ma anche corna e unghioni bovine. Denunciava la malafede dei mariti traditi e trovata la sua vittima la obbligava a stare al giovo. Metteva a terra il suo banchetto rovesciava il contenuto del sacco e poggiava i piedi del disgraziato sul banchetto, prima l’uno poi l’altro. Cercava una forma di scarpa che corrispondeva e iniziava a lustrare la scarpa con uno zoccolo di bue.

Mi pare di vederli. Mi spiace non averli veduti.

Ti consiglio di leggere Maschere e doni, musiche e balli. Carnevale in Sardegna di Luisa Orrù.

Photo Credit: http://www.stampacinidoc.it/su_carnevali.html

 

 

 

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