Viaggio nella tradizione: peccato e senso di colpa
A voler conoscere meglio il presente, qualcuno mi ha insegnato, bisognerebbe andare a scavare con pazienza certosina nel passato. Un lavoraccio è vero, eppure capace di soffiare via la polvere dai misteri e pettinare i dubbi, sciogliendo i nodi che intasano l’odierno.
E per capire meglio il profondo concetto di peccato, mi sono detta, si dovrà analizzare il senso di colpa e cercare di scovare l’attimo preciso in cui questo venne generato. Il viaggio intrapreso mi ha portato all’interno dell’unica realtà che mi appartiene come un paio di calzoni vecchi: ho cercato nella tradizione sarda, quella vecchia mille lune e non ho trovato ciò che cercavo. Il problema di chi cerca è che spesso non si riesce ad arrendere all’idea di non trovare e prosegue la sua lotta contro i mulini a vento fino allo stremo.
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Io sono stata più fortunata di altri visto che prima ancora di sfoderare la spada di legno contro il mio mulino a vento personale, ho capito che probabilmente il senso di colpa è tutta un’elaborata, raffinata e geniale invenzione. La mia tradizione, non ne porta traccia.
Non che non esista il peccato. Le vergini buttate nell’abisso di Ispingoli, o gli antichi sardi accecati dalle acque che tutto indovinavano avrebbero qualche cosa da raccontarci oggi sul peccato, se potessero. Anche in Sardegna è sbarcato il Diavolo con tutto il suo entourage demoniaco fatto di spiritelli poco raccomandabili, ma niente che si potesse anche solo avvicinare al portentoso senso di colpa che la Chiesa Cristiana è riuscita a generare nei suoi fedeli messa dopo messa. Una religione che non solo ha indirizzato con le buone e quando necessario con le cattive il pensiero dei suoi seguaci, ma che è riuscita a far in modo che l’uomo e la donna non avessero concezione per secoli del proprio corpo. Perché? E’ chiaro, perché anche solo sfiorare le zone “nascoste” era peccato. Un potere travolgente, un bavaglio soffocante, una trappola. E chi non vi scivolava dentro ci veniva spinto, con una pacca sulla spalla più pensante del dovuto.
Ma com’è possibile che in una tradizione ospitante il demonio e il peccato non si abbia traccia sostanziosa del senso di colpa? Perché sull’isola sarda il Diavolo non era il ricettacolo di ogni male, non era il nero in assoluto. Questa figura ha intrigato e calamitato la mia attenzione e alfine, senza cadere in tentazione ho capito. Il diavolo sardo era incapace di indurre al peccato, non aveva il potere di corrodere le anime e di sporcarle, non generava torbide passioni, né desideri da non dire. Per quello bastavano abbondantemente i capricci umani. Poteva piuttosto spaventare a morte, influenzare le vicende umane, aiutare gli uomini verso i quali delle volte si poneva a servizio. Così come esistevano i geni del bene esistevano quelli del male, solo un pò meno potenti, tanto per non soffocare la speranza. Diavolo come male insomma, ma pur sempre parte integrante della vita.
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Poi, quando sulle rive sarde hanno fatto la comparsa le barche che conducevano i messi della religione d’oltre mare, il diavolo si è fatto Tentadori e Aremigu e ha iniziato chissà perché e per come a stringere patti con gli uomini in cambio di favori sessuali e d’altro genere. In cambio della felicità terrena prese l’abitudine di chiedere qualcosa di estremamente leggero: l’anima.
Di lì a poco ci avrebbe raggiunti anche il senso di colpa il più delle volte dettato da condizioni assurde, che attecchivano con particolare favore quando protagoniste della storia erano le donne.
Conoscete quella delle Panas? All’inizio erano donne e mogli che la sorte infame volle togliere alla vita proprio durante il parto. Pessima idea, soprattutto perché a morire durante il parto si commetteva un peccato tremendo e mosse o meno dal senso di colpa, queste animelle erano costrette ad una purga lunga sette anni, durante i quali avrebbero, disperate e dannate, lavato i panni insanguinati sulle rive dei fiumi. Indovinate un po’ dove si andavano a purificare invece quelle che il parto lo superavano? Acqua e preghiere, prete e croci avrebbero pulito la donna da una macchia che a tutt’oggi non riesco a scovare.
Qui interrompo il mio viaggio, con in mano la risposta ad una domanda non posta. Liberarsi dalla trappola del senso di colpa è possibile. Vi aiuterebbe sapere che non sempre ha avvelenato le menti degli uomini e nemmeno per un secondo quelle di chi il senso di colpa l’ha creato?
Fonti bibliografiche:
Zedda C., 2009. Creature fantastiche in Sardegna. Cagliari: La Riflessione.
Tratto da “Est Antigoriu“
Scritto per Mediterranea.eu
Novembre 29, 2012
lo voglio proprio leggere…
Novembre 29, 2012
Buona Lettura 🙂