A mia nipote.
“Sette Janas ti danzino attorno, che tu sia la più felice del mondo”.
Annarosa aveva almeno due pregi: un bel sorriso e un grande cuore. Il mondo le si rifletteva contro gli occhi e a guardarci dentro ti sembrava di viaggiare verso luoghi lontani.
Da bambina non faceva altro che ridere: le zie raccontavano fosse nata ridendo, pallida come un confetto e con una fame da “sirboneddu”. Il tempo era corso via felice, con sole e luna che si alternavano in cielo e Annarosa che continuava a ridere portando allegria in tutte le case nelle quali entrava. E non crediate che entrasse in poche case.
Tutte le volte che la mamma la perdeva di vista per un attimo Annarosa sgattaiolava via dalla cucina alla ricerca di qualche nuova conoscenza.
Era così che aveva conosciuto Maria Antonietta, una donna severa, tutta d’un pezzo, piemontese d’origine e sarda per errore.
Il giorno che si erano conosciute Annarosa aveva bussato contro la porta fragile e vecchia della casa di Maria Antonietta. Quella aveva aperto e s’era trovata davanti una marmocchia tutta denti e sorriso, con degli occhi all’interno dei quali si vedeva il mondo.
– Cosa cucini? – Le aveva domandato la bambina.
E quella le aveva risposto: – Patatine fritte! – Con un tono tanto severo che avrebbe scoraggiato qualsiasi bambino. Ma Annarosa aveva sorriso: – Mi piacciono le patatine.
– E allora entra in casa.
La bambina se n’era fatta una bella scorpacciata e aveva recuperato anche un cono di carta oleata, carico di frittura, da sgranocchiare strada facendo, di rientro a casa.
Dal giorno Maria Antonietta e la madre di Annarosa erano diventate amiche, con l’invidia dell’intero paese, che nessuna mai, nemmeno la più chiacchierona era riuscita a far ingresso in quella casa piccola ma ricchissima, di piemontese che era sarda sì, ma per errore.
L’amicizia aveva fatto bene alle due donne e anche alla bambina, che andava con assidua frequenza a casa di Maria Antonietta.
Successe dopo qualche anno, come accade a tutte le bambine, che Annarosa divenne donna. I capelli ricci si erano fatti lunghi, i fianchi si erano fatti graziosi e morbidi e le gambine pure erano cresciute, così come i seni. Le uniche due cose a non essere cambiate erano stati gli occhi e il sorriso, grande e bello come una fetta d’anguria succosa e profumata, tagliata dopo un abbondante pranzo di inizio Agosto.
Annarosa donna continuava a bussare alla porta di Maria Antonietta. Lei non era cresciuta, si potrebbe dire invece che le sue gambe si fossero accorciate e la sua schiena ingobbita. Era la giovane Annarosa ora a friggere le patate per l’anziana, e quella non si stancava mai di ricordare il loro primo incontro, ringraziando quegli occhi di bambina che l’avevano fatta viaggiare senza mai muoversi da dove si trovava.
Fu uscendo da quella casetta piccola ma ricca che Annarosa incontrò Giacinto un giovane falegname che tutti i giovedì dell’anno, feste comprese, caricava i suoi taglieri e i suoi mestoli sulle spalle e se li portava in giro per il mondo.
Si innamorarono e costruirono un casa poco distante da quella di Maria Antonietta e Donna Carmela, la madre di Annarosa.
Lui un giorno intagliò una bellissima culla con dei piedini che le consentivano di dondolare e Donna Carmela e Maria Antonietta capirono che presto sarebbe arrivata una nipotina.
Inciso sul legno, con uno scalpello fine e gentile lessero il nome di quella creatura: Virginia.
Non era facile di quei tempi avere figli, eppure Annarosa e Giacinto vollero provare ugualmente e contro la volontà di Sole e con il supporto di Luna quella piccola pancina divenne giorno dopo giorno più grande.
Più si gonfiava lo stomaco più Annarosa perdeva la voglia di andare in visita da Maria Antonietta che gobba e vecchia, accompagnata dalla più giovane Donna Carmela andarono alla ricerca di Mammai, una donna bella come le pietre bianche e vecchia come gli “ollastri” che crescevano intorno alle case del villaggio.
Mammai andò a trovare Annarosa e il suo sguardo si fece di pietra dura e trasparente.
– La mamma sta male, la bambina non dovrà nascere. Sole non era d’accordo fin dall’inizio. Io non posso far niente.
Da quel giorno Annarosa perse il sorriso. C’è chi giura che anche gli occhi si fossero fatti opachi. Nessuno più ci vedeva dentro il mondo.
Una mattina baciò il marito e passo dopo passo raggiunse il piccolo giardino che circondava la casa. C’era, sotto un albero che alcuni dicevano essere il più vecchio fra i vecchi, un angolino nel quale Annarosa trovava spesso ristoro. Ora non sferruzzava più calzine per la sua bambina, ma guardava l’orizzonte lontano.
Quel giorno l’orizzonte le mise addosso una pesante tristezza e lei iniziò a piangere come mai prima di allora aveva fatto. Pianse per sette giorni e sette notti di seguito e l’ottavo giorno, all’alba, Giacinto non trovò più Annarosa seduta sulle radici dell’albero, ma un piccolo laghetto di acqua fresca. La chiamò fino a perdere la voce ma di lei non trovò traccia.
Due mesi e tre giorni dopo, di rientro dalla falegnameria, triste come una scarpa vecchia e senza suola, Giacinto trovò accanto al laghetto, proprio sopra la roccia che aveva dato ospitalità tante e tante volte ad Annarosa, un fagottino involto di bianco, senza denti e senza capelli ma con due occhi grandi dentro i quali si muoveva il mondo.
Se la portò a casa, chiamò Donna Carmela e Maria Antonietta e si convinse che quella fosse Virginia figlia sua e di Annarosa.
La bambina crebbe in maniera sorprendente. Aveva, esattamente come la madre, un dono. Ma nessuno riusciva a individuarne la natura. Era certo però che quando Virginia era nelle vicinanze tutti sorridevano, ma lei no. Mai da che era nata.
Ci si convinse che il suo dono fosse portare felicità e armonia, per quanto il suo sorriso fosse il più silenzioso e trasparente mai veduto.
A tre anni parlava come una donna, ma aveva la statura di una bambina.
Un giorno di sole forte Rebecca, la sua cugina più grande la raggiunse a casa. Giacinto dopo aver preparato un pranzetto frugale le mise a letto per il pisolo pomeridiano ricordando loro di non uscire per niente al mondo dalla camera. Nel pomeriggio il giardino era frequentato da “sa mamma e su soli” che le avrebbe portate via.
– Ma si può sapere che fai?
Chiese Rebecca a Virginia, vedendola dirigersi con fare sicuro verso la porta.
– Ho voglia di vedere sa mamma e su soli.
– E non ne hai paura?
– Se è una mamma sarà buona. E’ così che dovrebbero essere tutte le mamme no?
– Ma certo Virginia, è buona, ma mica si mostra così come dice tuo padre.
E le prese la manina cercando di riportarla a letto.
– Allora andiamo a trovare la mia di mamma. E’ diventata un lago.
Rebecca che adorava i misteri e cercava sempre nuove storie seguì la cugina. Davanti al piccolo laghetto domestico che, non si sa come, non si sa perché manteneva da tre anni un livello costante, ascolto Virginia raccontare la storia della sua nascita.
Le mostrò pure quel rametto di rose bianche e profumatissime che nasceva proprio dall’acqua e che pareva non avessero radici.
– Ma non ne hai mai parlato con la tua jana madrina?
– Ma io non ce l’ho mica una jana madrina.
– Sciocchezze. Tutte le bambine ne hanno almeno una.
E tirò fuori dal corpetto il suo campanello. Prese a scuoterlo avanti ed indietro per molti minuti di seguito tant’è che molte furono le fatine che si presentarono all’appello.
La prima a comparire fu Chiriga, la madrina di Rebecca che le si accostò rapida come un mufloncino di pochi mesi.
– Tutto bene tesoro mio?
E Rebecca le spiegò che Virginia, la sua cuginetta era alla ricerca della sua jana madrina che da tre anni non si presentava all’appello.
Chiriga sbuffò e già che il suo dono era quello di vedere le cose che gli altri non riescono a vedere strizzò gli occhi e si concentrò sul dintorno.
Le mostrò Abbameli, Matafaluga, Pisittedda, e Soledda che le guardavano una da dietro una pietra, una da sopra un’alta pianta di finocchietto selvatico, una in groppa ad un bel gattone e una sola, fine come uno stelo, tant’è che sembrava un fiore senza petali.
– Chi è la jana madrina di questa bambina?
Chiese Chiriga alle quattro. Ma nessuna si tirò avanti.
– Ah no io il mio bambino ce l’ho e sta facendo il pisolino.
– Io sto aspettando nasca, pensavo fosse la mamma che mi chiamava
– Io ne ho ben tre che mi aspettano a casa, sono gemelli.
Soledda non parlava ma si vedeva chiaramente il grembiale sporco di cioccolata e nocciole. La sua bambina la aspettava chissà dove.
– Ho capito. A Virginia deve essere toccata Mandronedda.
E iniziò ad urlare il suo nome.
Dopo una lunga decina di richiami si sentì da sotto la finestra della camera della bambina un grosso sbadiglio, come di cagnolone che si risvegli senza fretta.
– Chi è, chi è che mi chiama?
Si destò con tutta calma dal suo nascondiglio. Era aggomitolata come la più morbida lana e per lunghi anni in molti l’avevano scambiata per una pietra, proprio quella sulla quale Giacinto aveva trovato Virginia.
– Oh Virginia dolcissima, ma come cresci in fretta amore di jana!
-Sei tu la mia fata madrina?
Chiese la bambina con una certa timidezza.
-E certo che è lei! Ma ti è capitata la più pigra e dormigliona che ci sia. – puntualizzò Chiriga indispettita.
– Pigra, va là, per quanto tempo vuoi che abbia dormito…
-Tre anni – disse la bambina con un filo di voce.
Mandronedda stette zitta per un momento, si scosse il grembiale dai licheni arancioni che si erano depositati sulle vesti e sgranchì la testa facendo cadere del terriccio e qualche pietruzza. Il suo abito scuro era screziato di ricami verdi e gialli in forma di stella e sulla testa portava uno scialle frangiato di verde che ai più distratti poteva sembrare un ciuffetto di muschio secco.
– L’importante è che ora sia qui. Dimmi tesoro mio, perché mi hai chiamato?
E Virginia guardò Rebecca. In verità lei non conosceva il motivo per il quale la cugina avesse tanto insistito per trovarla.
– Il motivo è Annarosa. Virginia non ha mai visto la sua mamma e sospettiamo che si sia trasformata in acqua per non so quale motivo. Il papà le ha raccontato d’averla trovata su quel masso… ehm sulla tua schiena. – Si corresse all’ultimo momento Rebecca.
– Annarosa? Mmm – chiese dubbiosa, ma vedendo il viso di Chiriga contrarsi in espressione adirata pensò più rapidamente.
– Certo, Annarosa. Ecco mi ricordo. Accidenti, mi era passata di mente. Quando la vidi era immersa nelle sue lacrime. Mi avvicinai e le chiesi come avrei potuto aiutare una così bella stella. “Fammi diventare come l’acqua che sembra sempre allegra e riflette il mondo felice. E se non puoi nascondimi, nascondimi dentro l’acqua”.
Fece una breve pausa avvicinandosi con movimenti incerti e legnosi alla sua protetta. Aveva le gambette intorpidite dagli anni, questo bisognerà pure concederglielo. Ad ogni passo perdeva un pugno di terriccio e prendeva in volto un colorito pallido, come di luna.
– Non essere triste tesoro bello. Ora c’è Mandronedda. Fammi un bel sorriso. Mi fa bene al cuore starti vicino, il mio regalo ha attecchito.
Ogni Jana regalava al proprio bambino una dote, e Mandronedda aveva pensato bene di offrire in dono a Virginia la capacità di mettere armonia e rendere felici tutte le persone che le stavano accanto, così avrebbe fatto tornare il sorriso e la felicità anche ad Annarosa.
“Fammi sparire finché la mia bambina non sarà nata. Sono troppo preoccupata per la sua salute. Se nascerà e sarà in salute svegliami Jana mia, e io guarirò e ritroverò il sorriso. Sono sicura che se non mi aiuterai mi scioglierò in acqua”. Le aveva detto Annarosa riempendole il cuore di pietà.
Un vero peccato che Mandronedda dopo aver compiuto il prodigio si fosse assopita, perdendo completamente la cognizione del tempo.
– Quindi tu puoi restituirmi la mia mamma. Io sono grande ed in salute.
Quella però non disse niente. Le era difficile ricordare l’incanto utilizzato e quindi le era praticamente impossibile spezzarlo. Poteva essere inoltre che Annarosa si fosse trasformata per sempre in una “mamma e vuntana” e che quindi tornando indietro non avrebbe riconosciuto la sua bambina.
– Eh Virginietta bella di Jana, non è così facile. Non desideri proprio nient’altro?
La piccoletta fece di no con il capo. Non aveva in cuore altro desiderio.
– C’è poco da dire. Non so come fare. Ma c’è sempre l’incanto dell’albero. Quello funziona sempre. E’ infallibile.
Le due bambine erano entusiaste ma Chiriga non sembrava per niente contenta.
-Sei matta tu. Devi aver mangiato troppe frittelle. Come è possibile, dico io, che ti sia dimenticata dell’ultimo incanto fatto! La magia dell’albero, lo sai, non è cosa per bambine.
Mandronedda non disse assolutamente niente. D’altronde c’era davvero poco da dire, aveva una pessima memoria, non poteva farsene un cruccio per sempre.
– Non la lascerò andar da sola. – disse per migliorare la sua posizione.
– Lo credo bene. Andremo tutte assieme.
Senza che Virginia o Rebecca se ne accorgessero si fecero vicine tutte le Janas che il campanello aveva richiamato. Erano in sei più le due bambine. Si presero per mano parandosi davanti all’albero, il più vecchio fra gli alberi vecchi.
L’incanto che si preparavano ad utilizzare era antico ed infallibile. Era necessario risvegliare un albero che avesse visto nascere molti soli e tante lune. Se si fosse riuscite nell’impresa e l’albero fosse stato d’accordo, qualsiasi desiderio si sarebbe potuto avverare. Non esisteva niente di impossibile per un vecchio albero.
– Gli alberi sono i padri della nostra Isola: l’hanno fondata con l’aiuto delle pietre e del vento. Poi è arrivata mamma acqua, nonna luna e padre sole. Gli alberi possono tutto. Se riusciremo a risvegliarlo potrai chiedergli di aiutarti. – disse Chiriga a Virginia che iniziava ad avere un poco di timore.
-Ma come si svegliano gli alberi?
-Facilissimo bambina mia. Mandronedda, vuoi raccontarglielo tu come si svegliano gli alberi?
A Mandronedda quasi andò di traverso la frittella che per magia si era fatta comparire sotto i denti. Con le labbra sporche di zucchero iniziò a farfugliare qualcosa che nessuno comprese.
-Venite, vi faccio vedere. Ricordate bambine che questo è un gran segreto, uno di quelli da non dire a nessuno. Proprio a nessuno.
Non appena le bambine confermarono il patto con un sì mimato con il capo, la jana continuò, riponendo nella tasca del grembiale la frittella mordicchiata.
– Per tre volte solamente dovrete girare attorno al tronco, in senso antiorario e ripercorrendo con precisione il passi tracciati durante il primo giro. Più janas e bambine richiamano l’attenzione dell’albero, più probabile sarà che l’albero si svegli. Questo è addormentato da moltissimi anni – disse prendendo in mano un ramo secco che somigliava ad un bastone – ma assieme possiamo farcela.
Intanto che parlava tracciava un cerchio con la punta del ramo.
– Questo sarà il nostro percorso. Da qui partiranno i nostri giri e qui si concluderanno. Siamo intese?
Tutte, janas e bambine recitarono in coro un frizzante sì!
Fu così che quella strana comitiva partì. Conclusero un giro, conclusero un secondo giro, conclusero un terzo giro e attesero schierandosi tutte davanti all’albero con in testa un unico desiderio: “svegliati”!
E l’albero in effetti cominciò a svegliarsi. Un forte vento fece muovere le sue fronde e le sue radici cominciarono a scricchiolare sotto il terreno tant’è che le protagoniste della nostra storia dovettero indietreggiare per non cadere.
– Mai viste tante fatine tutte assieme. Non sarà mica capitato qualcosa di grave? – sbadigliò il grande albero, il più vecchio fra i vecchi. Si venne a scoprire poi che l’albero era una nonnina e non un nonnino e che molti secoli prima la sua mamma aveva scelto di chiamarla Ciriaca.
– Gravissimo, la mia mamma non si sveglia – intervenne Virginia senza alcun preavviso.
– E tu chi sei? Non mi sembri una fata.
– Lei è la mia bambina, Virginia. Purtroppo è tre anni che Annarosa dorme in forma d’acqua e ora la sua bambina la rivorrebbe a casa…
Mandronedda spiegò tutta la storia a Ciriaca che intanto ascoltava silenziosa allungando le fronde su quel gruppetto di donne. Virginia scoprì che le orecchie gli alberi le avevano un pò ovunque, ma soprattutto nelle foglie, mentre gli occhietti si trovavano nel tronco e la bocca era sepolta insieme con le radici, tant’è che tutte le volte che l’albero parlava la terra vibrava.
– Sei troppo sbadata Mandronedda. Ma dimmi tu come si può dimenticare l’ultimo incanto fatto. Questa bambina ha tutte le ragioni per essere in collera con te. Questo lo sai no?
La jana si fece piccola piccola e divenne tutta rossa. Essere ripresa pubblicamente da un albero era come essere ripresa dalla direttrice della scuola nella quale si insegna. Era tanto dispiaciuta che non riuscì a dir niente.
– Virginia piccola cara, ti restituirò la tua mamma. Tutti i bambini dovrebbero averne una e tutte le mamme dovrebbero godere dell’amore dei propri figli. Avrai però l’incarico di volerle bene sempre, proteggerla, aiutarla, starle accanto che lei ha dato tutto per te e tutto tu dovrai fare altrettanto per lei. Insieme sarete belle, forti e felici. E ti do anche l’incarico di badare a Mandronedda, che non è una jana cattiva, ma la sua testa è fra le nuvole. Per assolvere a tutti gli incarichi che ti ho affidato avrai attorno a te sette janas. Le sei presenti già le conosci, la settima la troverai presto sul tuo cammino.
Torna da me tutte le volte che avrai bisogno e porta la felicità e l’armonia fra le persone che incontri.
Virginia corse ad abbracciare l’albero che già sbadigliava. Lo avrebbe fatto molte volte ancora durante la sua infanzia, spesse volte in compagnia di Annarosa, che improvvisamente riprese forma. Il viso era tutto bagnato di lacrime ma le labbra sorridevano come quando era bambina e nei suoi occhi si rifletteva Virginia, la sua bambina, ora il suo mondo. Madre e figlia si abbracciarono a lungo e quella notte, nel letto di casa, caldo e morbido come il cotone Annarosa fece addormentare Virginia cantando una nenia che non sapeva di conoscere:
“Sette Janas ti danzino attorno, che tu sia la più felice del mondo”.
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