… e per favore, non fatevi tirare le trecce.
La sacralità femminile. Dal mito alla storia. Ad Alghero
Non sono cambiata. Da bambina ero come sono oggi: fornita di occhiali, grassottella e con occhi che parlano. E gli occhi che parlano sono una gran fregatura. Per questo delle volte li distolgo e non li mostro. Perché se ci guardi dentro lo sai senza dubbio se ti amo o meno.
Eppure ero, da bambina, più selvatica e primordiale. Il che si traduceva in eccessi di amore per il prossimo violenti e altrettanti violenti scatti d’ira quando la mia identità veniva abusata. Perché nonostante il concetto di spazio prossemico mi sia stato spiegato molto più tardi, e quello di identità pure, io queste cose le sapevo già. Sapevo che c’era un’identità da difendere, che c’era uno spazio oltre al quale gli altri non dovevano andare perché lì erano le mie radici e quelle non dovevano essere calpestate.
Sapevo già che intorno a me e dentro il mio spazio vitale volevo poche persone, e quelle che ci entravano dovevano essere invitate. Quindi niente baci, abbracci, zie che mi toccavano e zii che mi davano pacche sulle spalle. Ringhiavo. Ancora oggi non amo essere toccata senza mio esplicito invito. Insomma, da bambina non ero esattamente popolare. Sapevo già cosa volevo: il rispetto. Perché il rispetto è indice palese di amore. Avevo di queste cose un’idea vaga ma presente, quasi originaria, di quelle con le quali ci illudiamo di nascere.
Durante un’estate di molti anni fa, avrò avuto forse 4 o 5 anni è successa una cosa che non potrò dimenticare mai. Eravamo a Carloforte: i miei affittavano ogni estate una casa per qualche settimana. Ho di quelle vacanze ricordi incredibilmente belli. Proprio durante quelle vacanze mio padre mi ha insegnato l’arte del pensare in grande. Mi portava su una piccola vetta e mi diceva: – Scegli la casa che vuoi per queste vacanze – Io indicavo senza indugio la più bella, forse la più grande.
– Ok prendiamo quella – confermava in risposta.
Più in là ho capito che la casa che prendevamo in affitto non era la villa indicata dal mio ditino, ma in me si era innestata l’idea che se una cosa la volevo davvero, ebbene, potevo prenderla, con sacrificio magari, ma potevo farcela. Quell’idea è ancora con me, ha attecchito, ha dato buoni frutti.
Insomma una sera di quelle vacanze io e mio cugino iniziammo a giocare: lui non riusciva in una qualche attività e per rabbia iniziò a tirarmi le trecce. Sì portavo le trecce.
Insomma dopo un paio di: – Mario smettila – ricordo di avergli sferrato un morso dolorosissimo. Lui perse sangue e pianse. Piangeva come un uccellino. Io mi sentivo una conquistatrice. Ecco cosa succedeva a non rispettare Claudia.
Ebbene, diversamente da come mi aspettavo venni sgridata, punita e mandata a letto, chiaramente senza cena. Mia zia, che adoro, mi guardò come si guardano i delinquenti senza speranza. Per la prima volta capii che la violenza, pure per difesa, non era ben vista e dopo l’iniziale vergogna scelsi di elaborare tecniche di sopravvivenza diverse, perché già a 5 anni io sapevo che qui, in questo mondo, per vivere si deve lottare.
Scelsi di comportarmi in questo modo: non mettere mai più nessuno in condizione di mancarmi di rispetto. Il che si tradusse nella poca confidenza data praticamente a chiunque, serietà in quei contesti nei quali le mie amiche si divertivano, tipo quando un compagno toccava loro il culo. Ma che caxxo c’era da ridere? In breve divenni davvero poco popolare: insomma, una ragazzina intelligente, ma seria e che cavolo, troppo seria. Nemmeno il culo mi facevo toccare, ma così, tanto per ridere. Non avevo più bisogno di morsicare, avevo imparato ad usare le parole ma soprattutto lo sguardo.
Capito che la tecnica poteva andare scelsi di condividerla con qualche amica e con mia sorella. Se mi potevo salvare io, si potevano salvare tutte.
Le cose non sono cambiate più di tanto. Oggi ancora faccio lo stesso con i miei libri, con i miei articoli, con le mie parole: aiuto le donne e quando lo vogliono anche gli uomini a definire meglio il proprio spazio vitale, a definire con più precisione la propria identità, il proprio nucleo. E chi conosce il proprio nucleo difficilmente consente agli altri di sputarci sopra.
Il mito e l’identità femminile
Essere femminista per me significa questo: lottare contro la cultura patriarcale che ci ha sommersi. Tutti. Uomini e donne. Ci ha lasciati senza fiato. Ne siamo schiavi inconsapevolmente (che brutta parola) e non va contro alle sole donne, va contro anche agli uomini quando non la assecondano. E’ una cultura subdola, perché mica si vede, mica si sente. Ce l’abbiamo dentro, ci siamo cresciuti a mollo. E’ come la plastica, c’è, è ovunque, ma chissà perché non ce ne rendiamo conto.
Io con la cultura patriarcale ho sempre avuto qualche problema. A dieci anni ebbi una discussione piuttosto accesa con mia nonna e la mia famiglia. La domenica, le poche volte che si andava a casa dei nonni (normalmente scorrazzavo in campagna) le bambine apparecchiavano, i bambini giocavano. Il giorno della discussione ottenni la mia prima vittoria: anche mio cugino apparecchiò. Fu per farmi star zitta dissero, ma ne fui felice.
Ti risparmio la discussione con il catechista in merito al perché le donne non potevano celebrare messa.
Ebbene crescendo ho trovato nel mito e nella leggenda un campo di studio interessante, utile per identificare e scovare la cultura patriarcale, perché molte delle leggende, quelle più antiche, in sé non hanno traccia di cultura patriarcale.
Le janas e la cultura patriarcale
Uno dei motivi per cui amo le janas è che sono creature libere, originarie, indipendenti. Si nutrono di erbe selvatiche (figo no?) e nei villaggi vanno solo quando di loro c’è assoluto bisogno. Eppure sanno, aiutano, controllano, supervisionano. Anche quando non le vedi, loro ci sono. Il potere non gli è stato donato da nessuno, non da un padre, non da un marito, non da uno zio o da un fratello. Il potere se lo sono conquistate, e lo mettono a disposizione di chi ne è meritevole. Perché in fondo sono generose.
Sono dolci di una dolcezza saporita come il miele ma spietate come Claudia quando le si tirano le trecce. Forse anche di più.
Tutte le volte che durante una presentazione dico alle bambine e alle donne che tutte noi siamo janas intendo dire che tutte noi siamo creature libere, originarie, indipendenti. E se non lo siamo, possiamo esserlo. Possiamo conquistarci il potere, il ruolo, lo status, senza che nessuno ce lo regali.
La sacralità femminile. Dal mito alla storia
Un bel giorno le janas da sacre alla luna divennero puttane. Non si erano fatte toccare i seni dagli uomini, forse nemmeno il culo e non si erano fatte privare dei propri tesori. Dunque Dio scelse che diventassero piccole come formiche, sparendo poi. In altri casi scelsero di ritirarsi a vita privata perché questo mondo faceva loro schifo.
Qui sì che si intuisce un pizzico di cultura patriarcale. Che ne dici?
Di tutto questo parleremo sabato 23 marzo ad Alghero in compagnia di Emma Fenu ed Alessandra Derriu. Queste due donne che ti ho nominato sono janas e sanno di esserlo. Sono indipendenti, libere, il loro status se lo sono combattute. Sono donne che mi hanno ricordato che il valore della sorellanza può cambiare le cose. Sono donne che non si fanno tirare le trecce.
Emma Fenu parlerà del suo “Nero rosso di donna. L’ambiguità della femminilità. Mito, devozione e iconografia di Maria Maddalena fra Medioevo e Rinascimento” ed. Milena.
Alessandra Derriu porterà il suo Maura, l’indovina di Orotelli. Streghe nella Sardegna del ‘700 ed Nemapress.
Perché conoscere Emma? Perché conoscere Alessandra? Perché entrambe sono donne che lottano con le donne e lo fanno sfatando luoghi comuni, con una profondità e una professionalità che ti sorprenderà. Sono amiche, credono nel valore della sorellanza, studiano, raccontano.
Sabato racconteranno e racconteremo le nostre storie piene di verità ad Alghero.
Certo che ci saranno uomini: ci sarà Pier Bruno Cossu, recensore e scrittore e ci sarà Gian Mario Virdis, cantautore.
Siateci e per favore, non fatevi tirare le trecce.
Ps. Tutti i credit e collaborazioni della serata li trovi in locandina, e sono super.
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