C’era un tempo in cui la gente di uno stesso paese si conosceva per soprannome, un tempo nel quale la morte non era fatto di stato, un tempo in cui le strade al crepuscolo, poteva succedere venissero attraversate da piccole donnicciole che è d’obbligo immaginare vestite di nero. Non foss’altro per il loro tentativo di passare inosservate. Qualcuno le chiamava sacerdotesse della morte, altri donne esperte. Avete compreso delle nonnette alle quali mi riferisco? C’era chi le chiamava più sbrigativamente Accabadoras.[adsenseyu1]
Il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola, e mai nessun altro sarà tanto evocativo. Degradazione di acabar, queste donne che l’immaginario racconta d’età avanzata, “accabavano” appunto, ponevano la parola fine alla vita degli agonizzanti, che stentavano nell’abbandonarla.
La tradizione vuole che la donna fosse mandata a chiamare in casi del tutto eccezionali. Specie quando, pur ricevuta l’estrema unzione il moribondo sofferente non riusciva comunque ad abbandonare la vita. Causa principale che impediva il passaggio potevano essere gli amuleti indossati, o un grave peccato commesso in gioventù, di quei peccati che non conoscono perdono: poteva aver spostato una pietra di confine, o peggio ancora bruciato un giogo.
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Risulta certo che questa donna proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del nostro agonizzante. E’ probabile che i tentativi di accompagnarlo nell’ultimo viaggio, inizialmente fossero del tutto rituali. L’accabadora l’avrebbe privato degli amuleti, avrebbe tolto dalla stanza tutte le icone sacre, amuleti anch’esse e avrebbe posto accanto al capezzale un giogo, o magari un pettine. Se tutte queste attenzioni non avessero avuto successo, le si richiedeva l’so di maniere un poco più fisiche, l’uso de sa mazzucca. Angius ci racconta si trattasse di un corto mazzero che veniva battuto o contro il petto o contro il capo. Ma della pratica si sa poco, dato che la donna veniva lasciata sola con il moribondo.
Questa non risulta domandasse in cambio alcun compenso, e sembra più probabile svolgesse la sua funzione sociale.
Ci si è interrogati ampiamente sulla veridicità della figura, ci si è spesso chiesti se non si tratti di un residuo tradizionale, che in effetti non faccia capo ad alcuna realtà . Quesiti questi che altri prima di noi si posero. Della Marmora nel 1826 era quasi sicuro che queste donnette fossero esistite per davvero, e per quanto sottovoce, avessero operato.
Ne sarà certo almeno fino al 1839, quando con la seconda edizione del suo Voyage en Sardaigne, cercherà di smorzare i toni. In meno di dieci anni era nata una polemica infuocata, e di offese malcelate ne erano volate un bel po’. Protagonisti l’abate Vittorio Angius e Giuseppe Pasella. Quest’ultimo, sfruttando la rivista di cui era direttore, lo accusò di screditare Sardegna e sardi. Quasi che lo si potesse fare con le parole, piuttosto che non con i gesti.
Un vespaio insomma, per niente dissimile da quelli moderni. Il risultato fu quello di creare confusione nell’opinione pubblica e silenzio fra i sardi, che meglio d’altri popoli sapevano chiudersi a riccio e tacere.
La confusione ha trovato un attimo di tregua quando Della Maria riporta ciòche Monsignor Calvisi gli aveva riferito qualche tempo addietro. Uno scoop davvero…
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Pubblicato da La Testata
Claudia Zedda
Ottobre 4, 2010
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Ottobre 11, 2010
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