Profumo di pan’è saba, candele accese e centro tavola con castagne, pigne, noci e mandorle. E’ così che anche quest’anno aspetto l’arrivo de sa dì de is mottus e di Dònnia Santus[1]. Cerco di non mangiare, accompagnato da un buon te, un pan’è saba intero, ma resistere è difficile. Sicché tengo le mani occupate, con un occhio leggo e con l’altro scrivo, visto che l’altra sera ho scoperto qualcosa di nuovo a proposito di questo periodo magico.
Dire che i morti possono tornare non è corretto. I morti, la tradizione ce lo dice piuttosto chiaramente, tornano di sicuro. Di meno sicuro è che i vivi siano pronti ad accoglierli e a rabbonirli, perché delle volte i nostri defunti non sono esattamente socievoli come ce li ricordavamo: c’è da coccolarli, da nutrirli, da confortarli.
Per cui una candela sul tavolo, che bruci senza stancarsi, un buon dolce a portata di naso e a base di frutta secca, e un briciolo di attenzione in più, che se tornano, se lo fanno per davvero, sarebbe un peccato non accorgersene.
Il cibo è il vero protagonista di questi tre giorni, un modo del tutto insolito e magico per dire ai nostri antenati che a loro ci teniamo, che pensiamo spesso a quando erano in vita, e che sì, li ricordiamo più spesso di quel che credono. Questo è tempo di festa, un tempo protetto, durante il quale i vivi senza nulla temere, possono ricostruire un dialogo con i propri antenati, mediato dal cibo che è simbolo di vita sì, ma pure di rigenerazione e riaggregazione.
Altrove abbiamo già parlato de sos macarrones de sos mortos e de sa banca / mesa de sos moltos, de is pannixeddus invece non abbiamo ancora parlato.
“Innoi in Cuattùcciu po Dònnia Santus si fiant is pannixeddus[2]” a parlare è una nonnina di 83 anni che ha raccontato a Susanna Paulis, autrice del bellissimo “I dolci e le feste” della Cuec, come si festeggiava da loro Dònnia Santus. Ora questa tradizione non esiste più, ma prima dentro is pannixeddus (dei veri e propri fazzolettini di tessuto) si metteva tutto quello che si poteva regalare. La nonnina dice anche di cosa potevano contenere questi sacchetti: figu siccada, mèndula, arenada e fintzas druccis[3]. Questo piccolo sacchetto ricco di cosette che ancora oggi riteniamo buone, le si regalava ai poveri. Non erano i bambini a domandare l’offerta, ma i poveri sì.
La nonnina racconta pure di Tzia Raffaellica, mischina[4], che in casa loro andava molto di frequente per is pannixeddus. In cambio del favore i poveri promettevano di pregare po is ànimas de is mottus nostus[5].
Penso che questa de is pannixeddus, insieme con quella de sa pippia e tùcaru, siano tradizioni che come molte altre non debbano morire. Penso che farò di tutto perché non lo facciano e un modo fra i migliori per riuscire nell’intento e raccontare, raccontare e raccontare. Io a te, tu a chi vuoi.
Felice is pannixeddus.
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