Ipotesi di viaggio: Ulassai di pietre e arte

Credo che alcuni viaggi ci sia un momento preciso nella vita in cui debbano essere fatti. Prendi la mia vacanza a Ulassai (con l’accento sulla U e non sull’ultima a come si è soliti pronunciare). L’ho raggiunta per puro caso, quasi per sbaglio, quattro anni fa. Superati i profondi tornanti che la separano da Jerzu ci siamo fermati al suo ingresso, abbiamo guardato le sue pietre selvagge da lontano, scattato qualche foto e siamo scivolati via. Non mi ha trattenuta nemmeno l’indicazione “Stazione dell’arte”, che pure ho visto e non mi ha incuriosito. Meglio così penso ora. Molto meglio così. E’ probabile che 4 anni fa non fossi pronta a scoprire questo piccolo gioiello di pietra e lana, sorrisi cortesi e acqua fredda.

La prima tappa: Jerzu

Volenti o nolenti Jerzu è la prima che incontri, rocciosa, verde, brillante di viti e sole. I suoi paesaggi coltivati somigliano al velluto che morbido veste la montagna, e una bruma opaca sempre copre le sue vallate, umide e vive. Jerzu è un sogno fertile e promettente. Gli Antichi Poderi, con tenute da far girare la testa e uno shop troppo invitante mettono in mostra sull’insegna un bronzetto nuragico che ti accoglie bonario. Abbiamo comprato dell’ottimo vino che berremo per festeggiare qualcosa di bello. Meno di mezz’ora, qualche foto, la promessa di visitare presto le tenute e siamo volati via verso Ulassai.

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La seconda tappa: la stazione dell’Arte

Maria Lai. Credo mi abbia cercato lei. Non so dire come l’abbia scoperta, eppure l’ho scoperta. Un pomeriggio di fine maggio ho iniziato a guardare un video documentario che parlava di lei, delle sue opere. Poi ne ho aperto un altro, poi un altro, poi un altro. Non ne avevo mai abbastanza, non ne ho ancora abbastanza. Le ho promesso sarei andata a visitare i suoi luoghi. Ho mantenuto la promessa. Il suo primo luogo è certamente la “Stazione dell’Arte”. Dalla biglietteria fino alla prima sala il sole bruciava sulla testa. “Che fiore è questo” ho chiesto alla guida, simpatica e socievole. “E’ la malva…” mi ha risposto. Quel viola forte e profumato si imponeva sul paesaggio secco e croccante. Il luogo è detto stazione perché un tempo era per davvero una stazione. Ci passava un piccolo trenino lento e cauto che doveva somigliare al trenino verde. Poi con gli autobus il servizio è stato dismesso e il luogo abbandonato. La sua natura non ne ha risentito. La stazione è ancora una stazione e in quella che un tempo era la biglietteria ora stanno alcune delle opere di Maria Lai. “Quelle esposte sono poche, noi abbiamo scelto di rispettare il volere di Maria”. A Ulassai Maria Lai l’hanno conosciuta quasi tutti. Mi piace questa fisionomia di artista a portata di mano. Penso che l’avrei voluta conoscere anche io. La prima sala, e non succede spesso quando entro in un museo, mi ha messo i brividi. Sarà sciocco pensarlo e ancor più sciocco scriverlo, ma lì, in quella lunga stanza con una tavola apparecchiata vive l’artista. L’ho percepita chiaramente. “I libri secondo Maria erano il cibo per l’anima e per la coscienza”, per questo un’intera tavolata è apparecchiata con libri d’argilla, alcuni aperti, alcuni spalancati, altri chiusi, perché la coscienza di ciascuno di noi è cosa diversa. A capotavola pani che lievitano, che generano, che vivono. Sulle pareti mille e mille frasi di Maria Lai. Nella stanza delle Geografie tele cucite ti guardano curiose. Si chiedono che cosa tu ci veda dentro e si lasciano guardare da piccole poltroncine di panna posizionate al centro della stanza, in stile Prado ma molto, molto più in miniatura. La linea retta, via di fuga, il cerchio, il triangolo, i materiali di recupero, la tradizione dei tessuti e l’innovazione dei materiali, il color panna e il nero: ho bevuto tutte le informazioni che mi sono state date. “Ma lei l’ha conosciuta?” “Si, si certo, negli ultimi anni di vita veniva spesso qui. Era un personaggio particolare. Molto riservata non spiegava mai le sue opere. Un giorno, in occasione di una mostra particolare visitata da tanti turisti lei aveva indossato una maglia con su scritto “fragile”. Evidentemente non le piaceva stare al centro delle attenzioni, non le piaceva il clamore della gente. “Una volta”, continua la guida, “inseguita dai visitatori che riconoscevano in lei l’artista di quelle opere fece cenno di no con il capo, non sono Maria, sono sua sorella…” Le opere e l’artista iniziano a prendere forma. Comincio a masticare le sue creature, a trovarne un senso, o almeno credo. La sala destinata ai suoi maestri è ugualmente piccola, ma ricca di emozioni. L’ambiente un tempo rimessa del treno oggi è dedicata alle suggestioni offerte all’artista da Martino, Cambosu e Dessì. Martino arriva per primo e si concretizza in una scultura spezzata in due parti e vuota al suo interno, come i pani visti prima, come i libri. I vuoti, i ritmi sono regali del suo primo maestro che modellava opere in grado di racchiudere sempre dei vuoti, “perché l’opera deve respirare”. La capretta di Maria Lai, modellata con creta e inchiostro (se non sbaglio, non me ne vogliate), e spezzata in due parti che si compongono rendendo perfettamente l’idea. Al suo interno un profumato vuoto, misterioso e scuro, catturato ma fluido. Di Cambosu c’è il profilo di Maria Pietra, di Dessì una delle opere che più mi hanno attratto: un libro cucito che racconta la storia del Dio Distratto. Uscita dal museo ero entusiasta, con due libri in borsa e ancora curiosa di scoprire l’artista.

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Il B&B: lo scialle della luna

Isabel e il suo b&b sono stati una scoperta. Piccolo, profumato di vaniglia, curato nei dettagli, azzurro e bianco, fresco e pulito. Mi sono innamorata di quel luogo ospitale e timido. A letto, dopo una bella doccia, nella suggestiva stanza turchese, ho letto quel che nella brochure la proprietaria ha scritto di sé, della sua città e del suo b&b: “Il vento qui vi parla, gli alberi ascoltano, le rocce vi abbracciano, il silenzio vi rigenera. Buona permanenza e benvenuti a tutti. La mia casa è la vostra casa”. Il resto leggilo tu quando scoprirai “lo scialle della luna”, a pochi passi dall’arco cittadino, dalla chiesa e dalle rocce di Ulassai.

Terza Tappa: Su Marmuri cooperativa tessile artigiana

Nel primo pomeriggio abbiamo visitato questa piccola cooperativa, al femminile, laboriosa, profumata di lino, cotone e lana. Le donne che ci lavorano sono state cortesi e sorridenti, mi hanno raccontato qualcosa della cooperativa, qualcosa del lavoro, qualcosa dei materiali. Hanno collaborato con Maria Lai che a loro ha regalato la Capretta, oggi una delle più famose icone che rappresentano i tessuti della cooperativa. “Devo portarmi via una capretta”, ho detto alla ragazza che ci ha seguito. Lei mi ha mostrato meraviglie. Una me la sono portata a casa. Usciti dalla cooperativa Ulassai ti colpisce e stravolge. Le sue pietre sono dure e selvatiche. Ho a lungo creduto che il mio elemento fosse l’acqua, ma oggi so che sono le pietre. Mi stravolgono lo stomaco, fanno volare in alto il mio cuore, parlano ai miei occhi e mi fanno sognare di nuvole morbide e di cieli puliti.

Quarta Tappa: Maria Lai

Sto imparando a conoscerla. Almeno credo. Deve essere stata una persona generosa: ha lasciato di sé e della sua arte un po’ a ciascuno. Alla città, alla scuola, al nido, alle donne della cooperativa, alla chiesa. Oggi Ulassai è le sue pietre, Maria e ospitalità. Il paese è un po’ un museo a cielo aperto: non abbiamo visto tutte le opere di Maria ma alcune solo e bellissime. Il gioco dell’oca è piaciuto subito a mia figlia. Io mi sono seduta a terra, l’ho ascoltata giocare e ho lasciato che le pietre forti ma mai spigolose mi scivolassero dentro. Il lavatoio con il telaio a soffitto e la fontana li trovi superata la chiesa. Peccato per la fontana sonora di Nivola che non suona. Nelle vie del paese si intravedono fiocchi che svolazzano, azzurri e morbidi. Sono probabilmente ricordo di quell’opera d’arte che ha fatto la storia. Maria Lai scelse di chiamarla “Legarsi alla Montagna”. La chiesa l’ho lasciata per ultima. Alle pareti della struttura religiosa ci sono piccoli quadri rettangolari: tutte stazioni della Via Crucis, cucite su cartoncino nero da Maria Lai. La prima che ho guardato era un groviglio di fili. Ho storto il naso. Non capivo. Poi “il custode” di quelle opere d’arte si è avvicinato, ha guidato il nostro sguardo e i fili hanno preso forma e dimensione. Le linee sono tornate al proprio posto e io ho visto. Questa, insieme con la tavola apparecchiata è l’opera che più mi ha emozionato, con un messaggio nascosto, da scoprire, da interpretare, perché la donna artista non ha mai voluto dare interpretazione delle sue opere. “Era una piccola donna”, dice il prete con una voce perennemente emozionata, “piccola e che parlava poco. Diceva pochissime parole, non ne sprecava nemmeno una, ma tutte le volte che parlava, c’era da segnarsi quel che diceva”. Di rientro al b&b incontro una signora tutta vestita di nero, fazzoletto sul capo, sorriso appena abbozzato quando ci saluta, e mazzo di fiori bianchi in mano. Un quadro. L’indomani Isabel mi spiega che ogni giorno raccoglie i fiori all’orto e li porta in cimitero con una forza che spero io d’avere alla sua età.

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Quinta Tappa: da Concetta a Jerzu

Il vino di Jerzu, oh il vino di Jerzu. Da Concetta, un piccolo ristorante della zona ce ne hanno servito uno delizioso, accompagnato con degli ottimi culurgiones e squisiti coccoeddos. Il pane poi, croccante e profumato di olio e sale. C’era anche il casu marzu, una crema piccante e saporita che il vino ha diluito a dovere. La notte è stata fresca, di zanzare nemmeno la traccia, la colazione semplice e ricca, e il saluto alla città mitigato dalla promessa di far ritorno nella piccola, ospitale Ulassai, di pietra e sogno.

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