San Giovanni Battista: la notte delle magie
Non me lo ricordo quanti anni avevo, e non credo nemmeno sia troppo importante. Avevo appena conosciuto Nannigheddu e lui mi era piaciuto subito. L’avevo visto ed ero arrossita. Aveva un bel cavallo nero con dei fianchi lucidi e una coda pettinata come i capelli di Maria Luisa, brillanti, lunghi, lisci. Non che il cavallo fosse suo, era del padre, ma ci andava su come un leone. E io ero arrossita, con quei capelli raccolti che mi scoprivano il viso e quel fazzoletto male annodato, che lontana dagli occhi di mamma qualcosa in più, noi ragazzine dovevamo mostrare.
Non me lo ricordo quanti anni avevo, ma non più di 15, non meno di 13. Ero una bambina, che poi a quel tempo nemmeno a 10 anni si era più bambini e io mi sentivo una donna. Quella sera era una sera speciale. Non ci eravamo attardate a filare come tutti i pomeriggi di prima estate, fuori dalle porte, ascoltando i racconti noiosi delle nonne, ma le ragazzette come me avevano salutato e si erano recate nella campagna poco distante dal vicinato.
L’elicriso era il mio preferito. Lo muovevi e aveva odore di camice pulite, bianche, ben piegate, aveva odore di ordine e gioielli, di equilibrio e di sicurezza, aveva odore di papà. Ne avevo trovato una piantina arrampicata su una roccia bianca e secca, era arida e assetata, ma bellissima: le si attaccava addosso un lichene verde e bianco che sembrava un fiore. Era ipnotico, era un buon segno.
Mamma a quei tempi già mi aveva insegnato ad ascoltare: non le parole, ma i messaggi che mi venivano inviati. Erano ovunque ma prima di allora non avevo mai guardato. Bastava porre una domanda e aspettare tenendo gli occhi bene aperti. Una qualsiasi domanda.
All’inizio mi era sembrato difficile, ma poi tutto si era messo a posto. Cosi che già sapevo che il ditale di Caterina era nella tasca destra del suo grembiale, quello bucato, prima ancora che lei me lo domandasse. Mi era bastato vedere Tzietta Elisabetta murigai dentro la borsa del marito, appoggiata sulla coscia destra. La tasca era bucata e un dito di quella donnina piccola e chiassosa era fuoriuscito come un verme da una mela, come un ago dalla stoffa.
Ho perso il ditale di mamma – mi aveva detto qualche ora più tardi Caterina, che ai tempi era la mia più cara amica.
<< Hai provato a guardare nella tasca destra del grembiale bucato?>>
<<Ma non lo uso mai>>.
<<Te lo devi essere dimenticato lì>>.
Il ditale era lì, che l’aspettava. Dal giorno ero diventata una mistica, una maga, una strega per le mie giovanissime compagne
<<Camilla beni innoi – mi sussurrò quella notte Amelia che segnava con me le piante di San Giovanni>>.
<<Eh dimmi>>.
<<Stasera andiamo a raccogliere il fiore di balleriana. Vuoi venire?>>
<<Ma smettetela. Sapete che è pericoloso. Cresce in cima a quel cuccuzzolo e poi te lo sei dimenticata? Per raccoglierlo bisogna essere sole>>.
<<Ma da sola ho paura>>.
<<E allora niente, accontentati di segnare la pianta giusta e di sposare un marito ricco>>. Le avevo detto con un sorrisetto sciocco sulla bocca.
<<E prega Santuanni che male non ti fa!>>
E mi ero diretta verso casa, che io il mio progetto per quella notte ce lo avevo già da tempo. A casa trovai mamma che maneggiava dell’iperico. Ne aveva davanti cinque rametti. Da che era morto mio padre era ossessionata dalla paura di ammalarsi. Che poi mamma non si è mai ammalata ed è morta nel sonno, un infarto crediamo tutti. Ma lei aveva paura che papà le avesse contagiato quel male perché non aveva voluto seppellirlo con la croce d’oro che lui amava tanto. Se l’era rivenduta per non far morire di fame me, mia nonna e le mie sorelle. Ma portava la colpa nel cuore.
<<Ancora con questa storia mamma>>.
<<Cosa ti importa a te. Se sono io a dover morire quest’anno, almeno lo voglio sapere per tempo. O preferisci che ti lasci così? Con una vecchia, due bambine e senza marito?>>
<<Non morirà nessuno quest’anno>>.
<<Arribara sa majarza (Arrivata la maga)>>.
Non le risposi. Sapevo che voleva discutere. Sapevo che aveva il cuore triste. La balleriana quella notte l’avrei rubata anche per lei.
Posizionò con cura i cinque rametti sul davanzale della finestra. Dovevano assorbire i raggi della luna per dare un responso veritiero. Il primo era il rametto di nonna, il secondo era il suo, e gli altri tre eravamo io e le mie sorelle. Il gioco era facile. Ogni persona era legata a un ramo e il ramo che il giorno dopo sarebbe stato più secco avrebbe significato la morte, entro l’anno, del proprietario.
Da che è morta mamma quel gioco non l’ho mai più fatto. Ma ora che non ho più 15 anni inizio a capirla. La morte anche se sei stanca, anche se la desideri ti fa sempre paura. Che poi non è paura per te, è paura per le persone che rimangono, perché lo sai che hanno ancora bisogno di te, lo sai che piangeranno lacrime di sangue quando non ci sarai, e il cuore ti fa male per loro, per la pensione che non potrai più passargli, per i consigli che non potrai più dare, anche se nessuno te li ha chiesti. Se ne lamentano sempre, ma finisce che tutti li ascoltano.
Quell’anno, quella notte, in quel momento lontano non pensavo a morire, pensavo a vivere, a sposarmi, ad avere figli, a comprare un bel fazzoletto per mamma, un fuso nuovo per Gelsomina e un telaio per Rosa. A nonna avrei comprato una manciata di caramelle, che non aveva più denti e in bocca le duravano una mattina intera.
La balleriana sapevo benissimo chi ce l’aveva. Si chiama Donna Melania ed era vecchia come le pietre del mio giardino. L’avevo vista pochi mesi prima quando le avevo portato delle arance fresche e lei che mi aveva colta a guardare quel vaso mi aveva ringhiato subito contro:
<<Itta sesi castiendi? (cosa stai guardando?)>>
<<Nudda nudda. Poitta, itta c’è de castiai? ( Niente niente. Perché, cosa c’è da guadare?)>>
E la cosa si era conclusa così, ma io non mi ero dimenticata di quella bella pianta, nascosta dietro altri cento vasi, verdissima, in attesa di fiorire.
Aspettai che mamma recitasse tutte le sue preghiere, nascondesse chissà cosa sotto il letto e dopo aver sentito che si sdraiava, scivolai fuori dal letto.
Avevo con me tre monete di poco valore, un rametto di ruta scaccia demoni e un cuore che mi batteva in petto all’impazzata. Attraversai al buio tutta la via principale di quello che era allora un agglomerato di pochissime case. Hai mai camminato di notte, da sola, in una strada deserta? Senti solo il rumore dei tuoi passi e del tuo cuore e le case che a giorno ti sembrano confortevoli e bonarie di notte, di notte, addormentate, hanno occhi feroci. Mi dava idea che io fossi una straniera in casa mia, che le case mi guardassero, che dietro ogni angolo si nascondessero ombre di anime, kogas, s’aremigu. Mi spingeva avanti una brezza leggera e fredda. In lontananza sentivo le urla di chi festeggiava il santo ballando e bevendo eppure sembravano voci antiche e primitive, di fantasmi e dannati.
Raggiunsi il giardino di Donna Melania dopo infiniti minuti. Era vecchia, con un piede nella fossa. Vecchia, antipatica e ricchissima. Della balleriana, pensavo allora, non aveva più necessità. D’altronde non la rubavo per far del male a lei, ma per far del bene a me, e come mi avevano raccontato, avevo portato anche qualche moneta per ripagarla.
Il giardino era piccolo e profumava intensamente di gelsomino e luna. Di quella notte ricordo tutti gli odori. Gli odori mi fanno sentire viva, gli odori insieme ai ricordi di quando ero giovane. La luna calante era appena coperta da poche nuvole; illuminava di un denso latte tutte le cose. Le stelle erano poco brillanti ma presenti e mi sembra di sentire ancora l’odore di malvarosa che si era attaccata poco prima alla mia gonna. La balleriana era nascosta sotto la tettoia. Il pavimento era piastrellato da piccole cementine con su pitturato un fiore blu a cinque petali. Ero scalza, il contatto con il pavimento mi diede sollievo. Entrai sotto la tettoia e mi infilai in un piccolo solarium protetto da lastre di vetro che moltiplicavano le ombre e potenziavano i raggi di luna. Una vera e propria serra dove Donna Melania posizionava tutte le piante che stavano male, che stava riproducendo, rare, o che erano più delicate.
La trovai facilmente. Aveva foglie larghe e un solo stelo sulla cima del quale un grande fiore viola era pronto a sbocciare. Doveva mancare poco alla mezzanotte e io non dovevo far altro che aspettare i rintocchi della campana.
In lontananza sentivo l’anziana russare. Sembrava un uomo. Mi venne da ridere e mi trattenni soffocando le labbra con un palmo. Sedetti accanto al vaso pronta a portarlo via con le mani dietro la schiena. Era così che si faceva. Posizionai a terra il mucchietto di monete e inizia a recitare mentalmente una preghiera per San Giovanni.
Il sorriso mi si spense negli occhi quando intravidi una donna seduta poco di stante da me, in ombra, silenziosa, che non mi guardava ma che, era certo, mi doveva aver visto. Era nera come il fondo di un pozzo.
<<Voi donnette d’oggi non vi accorgete di niente. Nemmeno se ve lo sbattono in faccia>>.
<<Donna Melania non volevo rubarle il fiore, è che…>>
<<Sentiamo e cosa volevi fare?>>
<<Volevo rubarlo sì, ma le ho portato tre monete>>.
<<Devi ringraziare San Giovanni che io non sono Melania. Di tre monete cosa pensi che se ne faccia?>>
<<E chi siete allora?>>
<<Sono Comare Furlana. Avvicinati picciocchedda e non aver paura, Melania stanotte non si sveglierà.>>
<<E come fate a saperlo?>>
<<Senti come russa. Ti pare una che ha voglia di svegliarsi?>>
Risi. E poi parlammo di molte cose che non sono mai riuscita a ricordare. Mi chiese di me e mi raccontò della sua vita. Pensai, di questo ho memoria, che non parlasse della sua ma della mia vita. Tant’è che nel corso di questi anni tutte le volte in cui ho dovuto prendere una decisione difficile è stato come se sapessi già cosa fare. In tutte quelle situazioni mi è tornata in mente quella donna.
Persi il controllo del tempo, una cosa simile mi è successa solo durante il travaglio, mentre cercavo di partorire Giacinta. Pensavo fossero trascorse poche ore e invece era trascorso un giorno intero. Anche lì ho pensato a Comare Furlana della quale ricordavo solo il profumo. Profumo di luna e di rugiada.
<<Il nostro tempo è finito. Anche se non ricordi non hai dimenticato niente>>.
<<Cosa?>>
Le chiesi come se mi stesse risvegliando bruscamente da un sogno. Ma mentre glielo domandavo mi guardai attorno e notai che della luna non c’era traccia, ma di un luminoso albeggio all’orizzonte sì. Corsi via, dimenticando le monete, silenziosa come una capretta.
Scivolai a letto e solo lì, con il cuore che ballava senza musica ripensai alle mie tre monete.
<<Peggio per te che volevi rubare>>, mi dissi e chiusi gli occhi.
Dormii per meno di un’ora. Le galline in casa non ci lasciavano tregua e i cani nemmeno. Non mi sentivo stanca, forse un poco delusa, ma non stanca.
In cucina mamma era già intenta a preparare il caffè e il suo odore riempiva tutte le cose, tutti gli angoli, tutti gli armadi. E’ uno degli odori più belli che ricordo d’aver annusato, di caffè, appena sveglia, giovane, assonnata, con la voglia di vivere negli occhi.
Mamma era felice. Poteva significare una sola cosa: che nessun rametto s’era seccato.
<<Cos’è non vai a vedere la pianta che hai segnato?>>
Presi lo scialle e volai fuori. Raggiunsi gli steli di elicriso segnati con un povero filo bianco dopo una corsa arrabbiata. La prima che arrivava sul posto aveva la possibilità di trovare l’insetto migliore, si diceva.
Ero sola. L’orizzonte era bagnato di rugiada e le montagne in lontananza erano coperte da una bruma annebbiata. In silenzio sentivo il canto di qualche uccello e i primi ronzii delle api. Era freddo, ma bello, silenzioso ma rumoroso. Poche volte ho avuto la fortuna di ascoltare ancora quel silenzio.
<<Ragazze guardate che fortunata Camilla. Sulla sua pianta c’è una coccinella>>.
Le altre mi avevano raggiunto veloci come cavallini. Quella mattina ciascuna di noi ottenne in regalo un assaggio del proprio destino. L’anno seguente tutte eravamo sposate o fidanzate e i presagi di San Giovanni erano stati tutti rispettati.
Sul davanzale della mia stanza lo stesso giorno, alle 12 in punto, quando si dice passeggino le anime del purgatorio, trovai un vaso. Custodiva una rarissima balleriana in fiore che io non ho mai colto, forse perché ho sempre saputo avrei potuto farlo.
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